Ovviamente non poteva che essere scritto molto bene, visto che il ghost writer è Moehringer, lo stesso di “Open” di Agassi. Però cercare di rendere tragica e interessante la vita di Harry è stata dura.
La prima parte è incentrata sul funerale della compianta Diana e sul tentativo di Harry di non pensare a sua madre durante i suoi poco produttivi anni scolastici. Dopo le prime 100 pagine si inizia a percepire la rivalità con il fratello, l’insofferenza per la vita di palazzo, per il protocollo da seguire fedelmente, per la stampa onnipresente e a suo dire eccessivamente disturbante.
Trapela l’invidia per essere il “secondo” in linea di successione e per avere quindi (ai suoi occhi) ricevuto un trattamento inferiore per tutta la sua vita. Appare chiaro il rapporto conflittuale con il fratello William, fratello che ha subito il suo stesso grave lutto, la perdita in giovane età della madre, e che di sicuro subisce molte più pressioni riguardo al ruolo che ricopre, quello di futuro re, ma Harry sembra fregarsene, in un atteggiamento privo di empatia.
Le donne della sua vita sono relegate sullo sfondo, prive di carattere, di sfaccettature. Fino all’incontro con la famosa Meghan, presentata da lui come un angelo del focolare priva di difetti, pronta a dedicarsi alla famiglia, a essere madre, ad abbandonare tutto per lui, che non aveva quasi mai sentito parlare della famiglia reale inglese (e viveva da 7 anni in Canada, uno degli stati del Commonwealth, ma per piacere!).
Un uomo cresciuto nel privilegio, privilegio che apparentemente disprezza ma di cui non si rende minimamente conto. Afferma che la sua seconda casa sia il Botswana, ma è ovviamente grazie alla sua posizione di privilegiato che può permettersi di volare in Africa quando gli pare e passarci mesi e mesi all’anno.
Che caduta di stile, alla fine l’atteggiamento del “palazzo” che tanto dice di disprezzare sarebbe stato il migliore: “never complain, never explain”.